Storie di pazienti e persone del Meyer

Mamma Silvia e la notte che ruba i respiri

Questa è una storia che, da trent'anni, ricomincia daccapo ogni notte. È la storia di mamma Silvia e di Duccio, suo figlio, affetto dalla Sindrome da Ipoventilazione Centrale Congenita.

Questa è una storia che, da trent'anni, ricomincia daccapo ogni notte. È la storia di mamma Silvia e di Duccio, suo figlio, affetto dalla Sindrome da Ipoventilazione Centrale Congenita, una rara malattia, conosciuta anche con il nome sindrome di Ondine, che colpisce i meccanismi di controllo del respiro: chi ne è affetto, appena si addormenta, non riesce più a respirare da solo ma ha bisogno della ventilazione meccanica. Di giorno, quando i bambini sono vigili, sono come i loro coetanei: giocano, mangiano, studiano, fanno sport. Ma di notte, per una compromissione del sistema nervoso autonomo, ed in particolare della centralina che regola il controllo automatico del respiro, è un po’ come se l’organismo si dimenticasse di respirare: è per questo che si rende necessario che i pazienti vengano collegati ad un ventilatore.

Una sindrome rara, poco più di 60 bambini in tutta Italia

Al Meyer  una struttura dedicata. Oggi il Meyer ospita un centro di riferimento, inserito in un network europeo, che segue i bambini con questa malattia anche quando crescono e diventano adulti. La strada per le famiglie dei bambini affetti da questa sindrome – poco più di 60 in tutta Italia, 7 dei quali in Toscana - è un po’ meno in salita. Ma quando è nato Duccio, nel 1987, le cose stavano in un altro modo. La sindrome di Ondine era praticamente sconosciuta e Mamma Silvia ancora oggi si meraviglia del fatto che l’équipe del  Meyer  fosse riuscita a diagnosticarla già pochi giorni dopo la nascita. In particolare, tra i molti dottori che lo hanno seguito, fu Raffaele Piumelli, allora giovane medico specializzando, a prendersi a cuore il caso del piccolo Duccio, dedicando molte attenzioni all’approfondimento della sua malattia. Oggi Piumelli è un medico del Meyer  e membro del network europeo “EU-CHS” finalizzato alla diagnosi, alla terapia e alla ricerca nell’ambito della Sindrome da Ipoventilazione Centrale Congenita.

I medici rinunciarono alla loro stanza per noi

Una cameretta in ospedale. Da quel giorno di quasi trent’anni fa, Duccio, la sua famiglia e quel dottore hanno incrociato i loro cammini. “Dopo la nascita di Duccio siamo stati ricoverati 17 mesi al Meyer – ricorda – A quel tempo non c’erano alternative, e chi nasceva affetto da questa malattia era destinato a vivere in ospedale: non c’era altra prospettiva per sopravvivere. I medici, allora, rinunciarono alla loro stanza di ricevimento per allestire una vera e propria cameretta per mio figlio”. Il letto bianco, il fasciatoio, e mamma Silvia - allora ventiseienne –  che ogni sera, uscendo dall’ospedale, si diceva: “Io adesso fino a domattina devo dimenticarmi di avere un figlio”.

In aeroporto c’era mezzo ospedale ad aspettarci

Mezzo Meyer all’aeroporto. Nel frattempo intorno al suo caso si erano strette le attenzioni di molti medici del Meyer: “Il professor Donzelli era andato in Danimarca per valutare una strada terapeutica nuova, il dottor Piumelli era andato in avanscoperta in Germania per prendere contatti con il centro dove, pochi mesi dopo, sarebbe stato ricoverato Duccio per essere sottoposto all’impianto chirurgico di pacemaker diaframmatico”. Una scelta terapeutica rivoluzionaria per l’epoca, in quanto solo pochissimi pazienti al mondo, allora, venivano ventilati durante il sonno con questo particolare dispositivo. In attesa di quell’intervento, il Meyer diventa una casa e i suoi operatori sanitari una seconda famiglia: “Quando siamo tornati da Monaco, in aeroporto, abbiamo trovato mezzo Meyer ad aspettarci”. La vicinanza di medici e infermieri ha dato a mamma Silvia un po’ di quella forza necessaria per andare avanti.

Un ricovero lungo 17 mesi

Mamma Silvia. Silvia, che a suo tempo ha dovuto lasciare un lavoro che amava, ripercorre quei ricordi di notti insonni e giornate complicate con una lucidità che stupisce. Non ha dimenticato, e non potrà certo mai farlo, quelle prime notti piene di paura, con il buio e il sonno che minacciavano di mangiarsi i respiri del suo bambino. Duccio oggi è un ragazzo studioso e si è laureato, pur avendo dovuto superare molte difficoltà, legate ai pesanti vincoli notturni imposti da questa malattia: la necessità di tenere libere le vie aeree, quella di essere sottoposto a una corretta ventilazione. A complicare i primi anni c’è stata anche la tracheostomia, che ha reso difficili le prime fasi dello sviluppo del linguaggio: Duccio ha cominciato a parlare a 4 anni. 

Silvia adesso è la vice presidente dell’associazione italiana per la Sindrome da Ipoventilazione Centrale Congenita ed è, come sempre, in prima linea per cercare di aiutare le famiglie che si trovano alle prese con la stessa malattia di Duccio. Sorride. Chissà da quale bacino di forza primordiale riesce a prendere persino una salvifica ironia: “Siccome la notte non potevo dormire, mi sono fatta venire un po’ di sindrome anch’io e ho impiegato il tempo per scrivere un libro e pensare sempre a idee nuove per l’associazione: adesso vorrei preparare dei pigiami per i bambini e le mamme che arrivano al Centro CCHS del Meyer. Per farli sentire a casa”.

Già: il Meyer  ha anche il volto di mamma Silvia e di chi, come lei, ogni giorno contribuisce a fare grande il nostro ospedale. Se vuoi aiutarci anche tu fai la tua donazione!