Ilaria e quel gioco in scatola speciale

Oggi sta bene, ha lo sguardo sereno proiettato in avanti e una grande consapevolezza cresciuta insieme a lei dopo la malattia. Ricorda con precisione matematica la data di ognuno dei suoi ricoveri e quella della diagnosi.

Era luglio e faceva caldo quando i medici del Meyer dettero il nome di “linfoma di Hodgkin” al suo star male.

“Nel pomeriggio feci la biopsia e la sera mi risvegliai in oncoematologia”, ricorda. “Ero incredula, era come se non volessi capire”.

Michelle e le sue “spugnette” colorate

Michelle ha 8 anni, fa la terza elementare e ha ricevuto la diagnosi di diabete al Meyer tre mesi fa. È una bambina spumeggiante, ha occhi sorridenti che annunciano, in un lampo, la carica che si porta dentro.

La notizia del diabete (di tipo 1, tipico dell’età giovanile) è arrivata all’improvviso, senza sintomi, grazie ad un’intuizione della mamma che ha insistito per farle degli esami del sangue.

Da Boston bigliettini per i bimbi del Meyer

Mittente: un gruppo di adolescenti, tutti studenti di un liceo, che stanno approfondendo lo studio della lingua e della cultura italiana riuniti in un club.

Questi ragazzi hanno sentito parlare del Meyer e hanno manifestato il desiderio di mettersi in contatto con i bambini ricoverati, per trasmettere il loro messaggio di vicinanza.

Detto, fatto. Guidati da Jamila, che ha 19 anni e che essendo italo americana ha un'ottima dimestichezza con la nostra lingua, si sono messi al lavoro.

Clelia, il “potere della ricerca” e quella grande spinta

Clelia in questi giorni sta facendo una regata dopo l’altra con un' importante squadra agonistica di vela. Questo ci dice subito come sta: bene, adesso. Non deve neppure ritornare al Meyer per i controlli. Eppure non è lontano il tempo in cui è arrivata nell’ospedale pediatrico con una paresi alla parte destra del corpo. 

Miriam e Filippo, un’amicizia speciale

Si sono conosciuti durante le chemioterapie. Miriam e Filippo, 15 anni per uno, sono due pazienti del Meyer che oggi hanno finito il loro percorso di cura e sono tornati alla vita di tutti i giorni. Legati da una grande amicizia:

Ci siamo conosciuti al Meyer di Firenze nel reparto di Oncoematologia. Un luogo che ci ha insegnato a prendere la vita con leggerezza.

Simone e la sua terapia della bellezza

Una “pallina”: così la hanno chiamata, da subito, i suoi genitori, e contro quella Simone ha combattuto per quasi un anno, prima di tornare alla vita normale.
Io che ero abituato a correre, saltare, giocare, non fermarmi davanti a niente, ora mi trovavo chiuso in un ospedale senza le mie cose. I miei genitori mi dicevano che dovevo iniziare delle terapie che mi avrebbero fatto sentire male, la pallina doveva essere distrutta”, scrive.

Il Meyer diventa più grande.